Arrosticini, una passione travolgente

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Era il 1965, avevo sì e no undici anni e mio padre volle portarmi in Abruzzo. C'era anche mia madre, naturalmente. L'occasione era, credo, un giuramento delle reclute del B.A.R. Julia. Ma la vera ragione del viaggio era una rimpatriata con gli alpini che erano tornati, in pochissimi, dalla tragedia della guerra in URSS.

Poco più che vent'anni dopo quel tremendo inverno 1942/43 era ancora possibile trovare un certo numero di reduci, e così la Flaminia Pininfarina coupé (ricordo ancora la targa: MI 547514) ebbe modo di percorrere un sacco di stradine di campagna, con mia grande meraviglia.

Scenario insolito per un bambino nato e cresciuto a Milano, una Milano che allora non si era ancora riscoperta un pollice verde ed era molto più cementosa di adesso.

Il quartier generale era Penne, vicino a Pescara, nella grande e bellissima casa del fraterno amico alpino Jack Lombardi, reduce della Campagna di Grecia, già capitano di mio padre al corso A.U.C. di Bassano del Grappa, poi attivo nell'esercito badogliano in risalita verso il Nord Italia.

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Era militare di carriera congedatosi nel 1946 perché considerava sacro il suo giuramento al Re e non voleva servire la Repubblica Italiana. Insomma: un uomo d'altri tempi. Sua moglie Elvira, e i suoi figli Amerigo, Giovanna e Rosanna erano tutti affettuosissimi.

Il soggiorno a Penne fu un'esperienza magica. Visitai la campagna con tanta curiosità. Vidi con stupore un agnellino nero. Oh, bella... sul mio abbecedario di prima elementare l'agnellino c'era ma bianco, bianchissimo, l'avrei giurato. E poi le lucciole, mai viste prima. Mi sentivo in un mondo fiabesco.

Ma per quanto fossi meravigliato da quello che vedevo, la mia naturale propensione agli odori e ai sapori fu sollecitata molto di più. Ero un povero bambino di città. Non povero perché privo di mezzi, anzi la mia famiglia era agiata. Povero perché privo di esperienze, gestito da una mamma diffidente dei sapori decisi.

Sottoposto a una dieta "ospedaliera" perché questo fa male, questo appesantisce il fegato, questo fa ingrassare, e chi più ne ha più ne metta, costretto al mattino a sorbire un latte a lunga conservazione UHT totalmente scremato che mia madre crudelmente mi somministrava perché lo considerava salutare, e a cui talvolta aggiungeva (come se non me ne accorgessi) la magnesia in polvere per purgarmi, abituato al formaggio di caseificio (un marchio celebre, lascio a voi indovinare), niente aglio, niente cipolla, manco fossero immorali, poco sale, niente pepe. Olio d'oliva totalmente insapore, anche se questo era comune al nord.
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Si può ben immaginare lo shock che provai una volta venuto a contatto con una realtà totalmente diversa, con il latte che sapeva di latte, il formaggio pecorino, i peperoncini, la frutta, la verdura, le olive, l'olio con un sapore che non avevo mai immaginato. Avrei saputo, anni dopo, che in Abruzzo il vino è meraviglioso e che quello prodotto da Jack Lombardi rivaleggiava con quello di Ciccio Zaccagnini, caporal maggiore del Plotone Arditi al Battaglione L'Aquila, anche lui reduce di Russia. Ma allora no, niente alcolici ai bambini.

Era estate, e sulla collina di Penne c'era un clima meraviglioso, di sera ci voleva il golfino. Non avevo mai pensato nemmeno una volta ai gelati, che pure a Milano sono sempre stati ottimi, perché li associavo al caldo.

Proprio per questo mi meravigliai di vedere, dietro una curva della strada che portava a Penne, un carretto da gelataio. Un classico triciclo, come allora ce n'erano tanti anche nelle città, su cui mi sarei aspettato di vedere le coppette e i coni pronti da riempire.

Ma c'era qualcos'altro, e dal triciclo veniva un seducentissimo odore di carne arrosto. Volevo capirne di più e mi avvicinai, tirando la mano di chi mi accompagnava. Era di tardo pomeriggio, un'ora che anche per i golosi "volge al desio". Detto e fatto: mi ritrovai fra le mani un minuscolo spiedino di carne odorosa, fragrante, che diceva mangiami-mangiami.

Non me ne vogliano gli amanti delle arti figurative: la sindrome di Stendhal esiste anche per gli altri piaceri della vita, e io ne fui travolto. Non me ne vogliano i vegani e i vegetariani: un cibo così buono non può nuocere alla salute, può solo far bene.
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Oggi posso dire con soddisfazione di essere stato uno dei pochissimi bambini milanesi a conoscere gli arrosticini e di aver potuto sfoggiare la mia competenza quando nel 1975 sono stato al Battaglione L'Aquila, a Tarvisio.

Ma questa conoscenza gastronomico-artistica meritava un corso di perfezionamento, e ne potei approfittare frequentando un ristorante a Villa Celiera, qualche chilometro sopra Penne, noto anche come "l'Università degli Arrosticini".

Il titolare era Erasmo D'Andrea, che una volta mi ospitò e mi mostrò la preparazione: due donne, sedute su sgabelli, spolpavano grossi pezzi di pecora (pecora adulta, va precisato per chi non lo sapesse) e ne ricavavano tocchi di forma più o meno regolare che infilavano negli spiedini di legno.

All'ora di cena era Erasmo a cuocerli in un cortile sul retro. E il rito si celebrava anche in trasferta: una volta l'anno, a ogni adunata nazionale degli alpini, il Gruppo di Villa Celiera si riuniva, Erasmo portava la sua fornacella da viaggio e faceva arrosticini per tutti.
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Nel frattempo l'Italia si è globalizzata, se così si può dire: nei vari supermercati si trovano arrosticini confezionati con le carni più svariate.

L'equivoco più comune è l'uso della carne di agnello: no, per favore, l'arrosticino è di pecora adulta. Ma ci si sbizzarrisce con pollo, tacchino, manzo e chissà cos'altro.

Ne ho viste di peggio, perché vengo da un'epoca in cui a Milano, e in genere in tutta la Lombardia, si mangiava riso, riso e poi riso.

La pasta era al massimo la pastina in brodo delle minestrine, e gli spaghetti erano bollati come roba da terroni. Oggi la cultura della pastasciutta ha colonizzato Milano e dintorni. C'è ancora qualche resistenza al concetto di "cottura al dente", ma è sempre più debole.

Gli arrosticini si stanno affermando, ma nei modi non ortodossi che dicevo poco fa. Diamogli tempo, sono una leccornia e di sicuro saranno pienamente apprezzati prima o poi nella loro forma originale, con la carne giusta, con il dovuto rigore filologico. Io, nel 1965, ne ebbi solo uno e ne fui molto impressionato.

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Ma qual è il guaio, se ce n'è uno, degli arrosticini? È che sono piccoli e sembra di mangiare pochissimo; in realtà uno tira l'altro, non si contano più e si finisce per farne una scorpacciata.

Poco male: un buon digestivo e tutto torna a posto. Per me resteranno sempre legati, come la famosa tortina madeleine, alla mia favolosa esperienza gastronomica, estetica, artistica di bambino di città a contatto con la natura e con la campagna abruzzese.

Luigi Prisco